martedì 25 maggio 2004

La risalita del Tago

Abbiamo appena lasciato Lisbona. La discesa del Tago non è emozionante come la risalita perché manca la novità dell'evento, i panorami li avevamo già visti due settimane prima, erano quindi ancora freschi nella mente e non ci potevano colpire tanto, come invece è accaduto la prima volta. Siamo così di nuovo in Atlantico. Ma ora vi parlerò della risalita che è durata solo poche ore, ma che ore!
C’eravamo lasciati a Cascais. Arrivammo di notte e al risveglio ancora ero indeciso se risalire il Gran Fiume che mena a Lisbona. Il portolano era abbastanza allarmante circa le correnti e i bassifondi che infestano la bocca del fiume. Roger, un inglese incontrato a Gibilterra, mi confessò che nella sua discesa dall’Inghilterra aveva fatto scalo a Cascais ma, pur desiderandolo, non aveva voluto risalire il fiume, perché aveva valutato la cosa un pò rischiosa. Nel tentativo di rassicurarmi ho deciso di parlare della ipotetica risalita con il  personale del marina di Cascais. La risposta, lapidaria e disarmante, è stata: "It's not for all"  che, interpretato e tradotto in italico, suona pressappoco così: "Lascia perdere!". Non mi sfugge che sono un modesto navigatore mediterraneo e le maree, le correnti, la navigazione negli estuari li conosco solo per sentito dire. Ce n'era abbastanza per lasciar perdere. Però è da sempre che io voglio visitare Lisbona. Non so dire precisamente perché, ma il fascino dei “Descubridores” portoghesi, Enrico il Navigatore, la grande e terribile epopea coloniale, e, per venire ad oggi, il fado e Amalia Rodriguez, erano tutti dei buoni motivi per non perdere l'occasione.  E poi, diamine, c’è una prima volta per tutto! Studio parola per parola le istruzioni del portolano, consulto le tavole di marea, pianifico in anticipo, sulla carta, tutti i nostri movimenti e decido. Risaliremo il fiume. Alle 13:30 lasciamo Cascais per trovarci alla bocca del Tago esattamente nel momento in cui la marea comincia a salire e la corrente porta "dentro". Che cosa mi si agitava dentro in quei momenti è facilmente intuibile. Ansia, preoccupazione per la responsabilità che mi stavo assumendo nei confronti della barca e nostri, paura di sottovalutare le difficoltà e di sbagliare qualcosa. A me è sempre accaduto che, nell'apprendere un nuovo procedimento o un nuovo argomento, la difficoltà, in generale, non era capire i singoli elementi uno ad uno, sui libri essi sono in genere ben descritti, spesso anche troppo in dettaglio. No, il vero cimento è sempre stato di capire quale degli elementi esposti era importante e quale lo era di meno. Questi elementi, quando si leggono su un libro, sono tutti scritti con i medesimi caratteri, sembrano tutti su uno stesso livello d’importanza e di difficoltà. La vera conoscenza, la vera sapienza consiste proprio nel discernere che cosa è importante, che cosa lo è meno e che cosa non lo è per niente. Questa sapienza nasce, insieme, dallo studio e dalla pratica. Ovviamente il primo lo si fa sui libri ma la seconda no, non può essere trasmessa in alcun modo, bisogna viverla in prima persona. Certo, se c’é qualcuno esperto a fianco si rischia di meno e si evitano gli errori più comuni, ma non era il mio caso. Io ero solo, con le mie letture, le mie tavole di marea e ... tanta voglia di provarci. Così eccomi a percorrere le circa dieci miglia che ci separano dall'ingresso del fiume, ingresso che, neanche a dirlo da queste parti, è segnalato da due forti. Sulla sinistra Forte Sao Joaõ  e a destra Forte Bugio. Bisogna fare rotta per 110° da Cascais e questa ci porterà a metà della congiungente i due forti. Mentre navighiamo scorre il panorama di Cascais. Ieri non abbiamo visto nulla perché era buio al nostro arrivo. E’ una zona ad alto sviluppo turistico, ma la parte più antica di Cascais è molto interessante e sorprendente.
Una volta era una località alla moda presso l’Europa che contava, anche il nostro ultimo re Umberto II è venuto qua in esilio e gli hanno intitolato una strada. 
C’erano ospiti di tutte le nazionalità ed ecco che l’architettura si mostra piena di reminiscenze varie, anche mitteleuropee, mischiate al colore portoghese. Un accostamento affascinante.
A proposito di colore ancora non vi ho ancora parlato dell'azul (azzurro). E’ il colore principe nella decorazione delle case tradizionali portoghesi. E’ un bellissimo punto d'azzurro che è usato per porre l’accento su particolari architettonici quali riquadri delle imposte,  balconcini (tutti in ferro battuto, deliziosi),  spigoli delle case ecc. Esiste poi un particolare elemento decorativo, chiamato "azulejo", che, a dirla in parole povere, è un mosaico, realizzato con mattonelle in maiolica.
Gli artisti, eh sì perché a volte si tratta veramente di arte, dipingevano sulle mattonelle, una per una, con un tratto azzurro su fondo bianco, porzioni del soggetto, a volte sacro, a volte profano, a volte naturalistico. Queste mattonelle venivano cotte al forno e poi sistemate sul muro, come un grande "puzzle". In questo modo hanno potuto rappresentare scene, anche le più minute, che si possono trovare sui muri delle abitazioni private, fino a quelle di carattere manieristico che si trovano su chiese, fontane e palazzi pubblici. Un trionfo di dettagli, vesti sontuose, scene di vita pubblica o piccole immagini di devozione che meriterebbero, da soli, un'attenzione esclusiva.
Ora però torniamo alla nostra navigazione.  Le dieci miglia fino alla congiungente i due forti si consumano rapidamente e inesorabilmente, il vento si è rimesso da Nord intorno ai 20 nodi ( che poi arriveranno a una trentina!). Forte Sao Joao si avvicina. E’ una struttura militare, arcigna e scura, che, insieme all'altro forte, doveva assicurare un caldo benvenuto alle navi nemiche che avessero tentato di avvicinarsi alla capitale lusitana.
La giornata è molto bella con una leggera foschia e anche il bastione bianco di Forte Bugio è presto in vista nel bel mezzo dell’estuario del Tago. 
Da dietro Sao Joao spunta un'altra barca a vela, è francese, lei sfrutta l'ultimo periodo di corrente discendente per lasciare Lisbona e fa quindi la rotta contraria alla nostra. La mezzeria della congiungente i forti si avvicina, intravedo delle boe sulla destra, devono essere quelle che delimitano i bassi fondali. Caspita quanto sono al largo, dalla carta non traevo la stessa impressione, me le aspettavo più vicine alla riva. Questo significa che le secche si estendono verso il centro del fiume, in pratica verso la suddetta mezzeria sulla quale siamo diretti. Scrutiamo sulla sinistra, un allineamento ci dovrebbe dire quando virare per 047° onde evitare di finire sulle secche. La foschia non ci aiuta, le costruzioni sulla costa sono tante, la “Water tower" (torre piezometrica) di Gibalta non si distingue. Essa è uno dei due elementi dell’allineamento suddetto. Se non la vedo non posso dire quando sarò sull’allineamento cercato. Ma ormai stimo di essere giunto sul punto dove, secondo la mia pianificazione, debbo virare. Che faccio? Viro anche senza vedere gli allineamenti a terra? Esito mezzo secondo e poi viro comunque a sinistra per 047°, rotta obbligatoria. Dalla mia esperienza di volo ho conservato molti insegnamenti, uno dice: quando stimi di aver raggiunto il punto previsto di virata, vira! Se non riconosci il punto, vira lo stesso! Se la pianificazione è ben fatta e l’hai seguita scrupolosamente non puoi sbagliare di tanto. D’altronde é intuibileche sia difficile riesca a riconoscere particolarità della costa in un'area sconosciuta. Con un filo d’apprensione sulla rotta 047° pianificata. Compare una boa di “acque libere” proprio nella zona dove ci troviamo noi. Bene, è una conferma che siamo in acque sicure. Poi, passata una decina di minuti, all'improvviso, come per un prodigio, la segnalazione che attendevamo si palesa davanti a noi con la sua lucetta lampeggiante rossa e l'altra luce rossa fissa, sullo sfondo, allineata con la prima. Ci assicura che siamo perfettamente in rotta. Evviva. Siano benedetti gli insegnamenti dei miei istruttori di volo di Moose Jaw, loro sapevano che, volando sul bianco invernale del Canada, era facile che un segno del terreno si perdesse nel biancore uniforme della neve e per questo davano tanta importanza alla navigazione stimata. Nel frattempo, assorbiti dall'osservazione della costa, non c’eravamo quasi accorti che stavamo lasciando le acque dell’oceano e stavamo entrando nel Tago. Che spettacolo! Le rive sono molto boscose, il fiume è larghissimo. Sulla riva sinistra per chi entra, quella più abitata e dove sorge anche Lisbona, è un succedersi di belle case e ville.
Sulla riva destra pochi insediamenti urbani e qualche struttura industriale. Sullo sfondo, in direzione di Lisbona, che ancora non è in vista, si erge, maestoso e impressionante per le dimensioni e le linee svelte, il ponte "25 do April", due enormi pilastri e una campata sotto alla quale passava tranquillamente la Queen Mary. 
E’ un'opera gigantesca, che si rivelerà in tutta la sua ciclopicità solo passandoci sotto con la barca  ( e io che, ingenuamente, avevo chiesto al personale del marina se avrei avuto problemi a passarci sotto col mio albero alto 15 metri… Mi hanno guardato con compassione!). L'allineamento ci porta per mano fino al punto dove un'ultima boa segnala la fine dei bassi fondali. Lì possiamo virare a destra e iniziare la risalita vera e propria. Il fiume è molto profondo e la navigazione è sicura. Noi ci teniamo vicini alla riva sinistra e Amalia mi parla, in termini entusiastici, della Torre di Belem, che lei visitò dieci anni fa. Però non si ricorda bene dove sia, e poi la prospettiva dalla barca a vela è molto diversa da quella di chi arriva via terra. Ma ecco che comincia a biancheggiare una costruzione particolare.
Merli, torri, bastioni, e, avvicinandoci, particolari architettonici e decorativi un po’ bizzarri, forse un pò arabeggianti, quasi dei merletti. Poi leggerò che si tratta di un luminoso esempio d’architettura manuelina. E' appunto la torre di Belem, uno dei monumenti più famosi di Lisbona e sicuramente merita la sua fama. Poco oltre si erge il grande monumento in marmo ai "Descubritores" portoghesi. In prima posizione prega l'onnipresente "Infante Dom Enrique", che per noi è semplicemente Enrico il Navigatore. A seguire, una folla di soldati, funzionari, prelati in pose pompose e retoriche, con larga presenza di stendardi e simboli religiosi (… ah, se potessero parlare tutti quei nativi ai quali l'ostia fu fatta ingurgitare a suon di randellate!). Scopriremo nei giorni seguenti che nel piazzale posto davanti al monumento è stata sistemata una grandissima rosa dei venti, offerta dal Sud Africa in segno di riconoscimento per la parte avuta dai portoghesi nel raggiungere il Capo di Buona Speranza. E’ talmente grande che la si può cogliere nella sua interezza solo salendo in  cima al monumento. Ci avviciniamo ormai al grande ponte, è immane, intimidisce, meraviglia e...assorda. Il rumore generato dal passaggio dei mezzi di trasporto è simile al ronzio di miliardi e miliardi di api, un ronzio catastrofico. Inizialmente, a distanza, neppure lo si avverte, poi, avvicinandosi, sembra di percepire qualcosa, non si è sicuri neppure che sia un rumore reale. Ma, al diminuire della distanza il rumore diventa ben reale. Passando sotto il ponte ci si chiede come sia possibile vivere nelle sue vicinanze, è roba da fare a pezzi i nervi più robusti. Nel frattempo è apparsa Lisbona, adagiata sulle colline. Il panorama è molto dolce e non riesco a non cadere nella più scontata delle fantasie. Guardo quel panorama e cerco di immaginare i pensieri e le emozioni dello stuolo di uomini che da queste rive sono partiti, stipati come sardine in navi che erano grandi e maestose solo nella nostra fantasia, alla ricerca d’oro, fama e ricchezza. I Grandi, i Vasco de Gama per dirne uno, sono famosi e le loro storie sono note, ma gli equipaggi, i soldati, sono per noi una massa indistinta. Ma erano anch’essi degli uomini. Lasciavano casa, mogli, fidanzate, figli, genitori, amici, nella speranza di tornare carichi delle ricchezze che i miti del tempo facevano balenare davanti alle loro avide immaginazioni. Con quali paure, anche le più incredibili, lasciavano la sicurezza della loro patria. Navigavano in  acque sconosciute che immaginavano popolate dai più spaventosi di mostri marini, affidandosi esclusivamente alle capacità, oggi misteriose e quasi magiche, dei loro comandanti. Le cronache non ci hanno conservato queste informazioni, le loro storie non hanno fatto la Storia. Ora il fiume è frequentato da altri marinai, ben più comodi e fortunati, come noi ad esempio, o come quei due che, a bordo di una pilotina con su scritto "Tejo pilot", si avvicinano con decisione ad Ulyxes e che, arrivati a portata di voce, dicono qualcosa che non capiamo ma che ci allarma. E se avessimo infranto qualche regola sconosciuta? E se stessimo combinandone qualcuna storica? Ho un momento di incertezza, fermo la barca, li guardo con aria interrogativa e loro, intuito il nostro imbarazzo, con grandi sorrisi ci tranquillizzano con un "solamente para complimentar la barchiña italiana". Non ho indagato ulteriormente se i complimenti erano per la barca, per la bandiera poco comune, o per l'equipaggio o la parte femminile di esso, ma ero molto felice dell'accoglienza. Intanto Ulyxes continuava a risalire il vecchio fiume, restava solo da individuare il nostro ormeggio, già erano passati alcuni approdi il cui ingresso si apriva direttamente sul fiume. Superate alcune grandi navi ormeggiate alle banchine, viriamo intorno alla testata di una di queste e subito dietro troviamo l'ingresso del “Doqe de Alcàntara” (l'accento è lì di proposito, ho scoperto che noi in italiano sbagliamo la posizione dell'accento tonico). Ormeggiamo all'interno dopo esser passati a fianco di una autentica meraviglia, una vera fregata a vela della Marina Portoghese, ancora funzionante, armata di veri cannoni ad avancarica, costruita naturalmente in legno e con la carena fasciata di rame.

Siamo davvero arrivati a Lisbona e ho il cuore che mi batte per l'emozione. 
  
Dal giornale di bordo:

Tutto il vento da nord che stiamo incontrando sta rallentando il nostro cammino in maniera decisa. E’ vero che c’era da aspettarselo, non posso dire che sia una sorpresa. Però abbiamo già perso tanto tempo a causa di questo fatto, la permanenza negli scali è stata spesso prolungata nell’attesa che i venti contrari allentassero la loro presa. Man mano che i ritardi si accumulano le possibilità di raggiungere le Svalbard si assottigliano. E’ vero che non me l’ha ordinato il medico di arrivare lassù a tutti i costi, ma non posso impedirmi di ripensare alla grande preparazione, alle spese, al lavoro, al tempo dedicato a questo progetto; ai sogni di riuscire a raggiungere la terra da cui partì il dirigibile Italia di Umberto Nobile. Non mi sono mai nascosto le difficoltà ma gli sviluppi del viaggio, dalla mia partenza disastrosa di novembre alle contrarietà e i ritardi dopo la seconda partenza, mostrano una certa ostilità del destino. Bon, debbo farmi una ragione di queste cose e valorizzare quello che di buono sta venendo da questo viaggio. Forse in queste condizioni non posso chiedere di più.


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