sabato 29 maggio 2004

E fu Portogallo

Siamo di nuovo in Spagna, esattamente a Camariñas in Galizia. Siamo appena arrivati provenienti da Leixões e già amiamo questo luogo. Ma questo farà parte forse d’altre impressioni. Oggi parlo del Portogallo che abbiamo lasciato, a malincuore, e che ci accolto per quasi un mese (molto di più di quanto non prevedessi, ma il vento impone le sue regole e bisogna accettarle a cuor leggero). E lo saluto parlando dell'ultima città portoghese che abbiamo avuto opportunità di visitare, Porto. Che poi sarebbe la nostra Oporto, la " o" soprannumeraria mi ha fatto comicamente pensare ad un ipotetico antico napoletano di passaggio che, arrivando via mare, avesse detto semplicemente - Simm’arrivati, ecco ‘o porto’- storpiandone così il nome per sempre. Posso solo dire che se dovessi scegliere una città del Portogallo dove stare, tra quelle visitate finora, quella città sarebbe senza dubbio Porto, è un gioiello. Non sarà senza significato che sia stata dichiarata patrimonio dell'umanità dall'Unesco. E’ costruita sulla riva destra del fiume Douro, il quale scorre in una profonda e verdissima valle. Sul fiume, lungo gli argini, banchine, depositi, e, oggi, anche ristoranti e bar con i tavolini all'aperto. A partire dal fiume, in ripida salita, uno snodarsi di vie e viuzze che, a percorrerle, sono una continua sorpresa. Un “ooh” segue ad un altro “oohh”. Uno stretto vicoletto, sul quale si aprono direttamente le porte delle case o dei cortiletti e che mostra senza bigotta pudicizia panni stesi ad asciugare, si apre su una piazza enorme e bellissima, dove si erge, in cima ad una colonna, la statua di Enrico il Navigatore che, almeno così vuole una tradizione appresa qui, nacque proprio ad Oporto.
Sulla gran piazza convergono altre strette stradine piene d’umanità, e grandi e importanti ruas, sulle quali insistono palazzi la cui architettura ricorda molto quella dell’Europa continentale, sembra di averli già visti a Parigi o a Monaco di Baviera. E questo è il vero motivo della sorpresa che si prova passeggiando per Porto, un contrasto unico tra angoli colorati e pieni di vita e  palazzi e  monumenti che restituiscono appieno il carattere internazionale e di crocevia dei commerci che Porto ha avuto in passato, e che, in parte, ha ancora oggi. Quale differenza con Lisbona! Porto ovvero una grande impressione di vitalità, Lisbona ovvero la nobiltà decaduta. A Porto, complici i prossimi campionati europei di "futbol", tutto è per aria. Ma lavorano in tantissimi, fino a sera inoltrata, per rendere la città ancora più bella. A Lisbona molto è per aria....e basta.

Dal giornale di bordo: 21 maggio,

Stanotte abbiamo preso una cima nell’elica. Quello che temevo si è avverato; era già dai tempi di Alicante che la presenza di galleggianti per nasse, le spadare e tutta la parafernalia di attrezzi da pesca e non, incombeva. Mi dicevo che era probabile che prima o poi qualche cosa finisse esattamente sulla rotta dell’Ulyxes, magari di notte, quando le possibilità di avvistamento sono assai ridotte o inesistenti. Finora era andata bene. Stanotte invece il fattaccio è accaduto. Intorno alle due del mattino si procedeva a motore, in assenza di vento, rotta 025° diretti a Leixões (Porto), ma con l’intenzione, se questa tregua dei venti da nord si fosse mantenuta, di proseguire fino a Vigo. Verso le due noto una lunga ma indistinta cosa chiara di poppa, capisco al volo che si tratta di qualcosa che la barca sta trascinandosi dietro. Vado a prua per controllare i miei cavi d’ormeggio che sono lì riposti, tutto è in ordine, non stiamo trascinando cavi di nostra proprietà. E allora che cosa è? Non c’è scelta, debbo fermare la barca e tirare su l’UFO per attribuirgli un nome. Metto in folle, la barca si ferma, col mezzo marinaio arpiono il groviglio, salpo, salpo finche un ammasso di cima è a bordo. Mi restano in mano due capi che vanno (orrore!) entrambi sotto la barca. Tiro alternativamente, con forza, prima un capo poi l’altro, mi aiuto anche col verricello, ma non ci sono risultati. Comincio a scoraggiarmi, pavento la necessità di tuffarmi all’alba in oceano, l’idea mi fa rabbrividire in tutti i sensi. Con la torcia mi sforzo di vedere e capire che cosa renda il groviglio così tenace e noto dei guizzi improvvisi. Osservo meglio: aguglie. Il mare pullula letteralmente di aguglie, che si muovono con scatti rapidi ed entrano ed escono, come saette, nel cono luminoso della torcia, e capisco anche il significato di certi sbuffi che potevo udire nel buio: delfini. Ogni tanto uno di essi guizza nelle vicinanze e percepisco il chiarore della sua pancia bianca. Noi galleggiamo immobili come papere con l’elica impastoiata, mentre tutto intorno c’è un gran movimento, è in corso un banchetto e forse c’è chi è più infelice di noi: le aguglie. Ritorno all’idea di tuffarmi. No, l’idea non mi sorride per nulla, non per i delfini certo, meno che meno per le aguglie. Però in un’altra occasione anni fa, non tanto più ad ovest della nostra posizione attuale, ho visto sia gli squali sia le orche. Non mi faccio illusioni, se dovrò entrare in acqua dovrò farlo con la consapevolezza che potrei correre un grave pericolo. Potrei anche tentare di chiedere aiuto, farmi trainare da un rimorchiatore e, arrivati in porto... potrei vendere la barca per pagare le spese. Basta, devo inventarmi qualcosa di sensato, ho già pensato troppe stupidate. Tento l’azzardo, rimetto in moto e, con precauzione e batticuore, innesto la marcia avanti per una frazione di secondo. Le due cime si tendono ulteriormente. Niente, è chiaro che la marcia avanti le avvolge intorno all’elica ancora di più. E allora, marcia indietro. Stessa solfa ma, armeggiando e tirando in maniere abbastanza casuale sulle cime e sulla leva dell’invertitore riesco a recuperarne un bel pò. Arrivo però al punto in cui la tensione non si allenta più e non riesco a recuperare altre porzioni della stramaledetta cima. Ormai in preda ai pensieri più pessimistici prendo il coltello, mi sporgo fuori bordo al massimo possibile e taglio le due cime, più in basso che posso. Poi do macchina avanti, con tanta apprensione e timore delle conseguenze. Agli inizi c’è, in effetti, un poco di casino in corrispondenza dell’elica ma poi, lentamente, mentre la barca comincia a muoversi, i rumori anomali paiono scomparire. Presto orecchio ad ogni singolo rumore e vibrazione, lo paragono mentalmente ai rumori che la barca faceva prima, do un po’ di manetta, la barca accelera, il motore, la trasmissione, l’asse, tutto sembra normale, porto i giri fino al regime normale e la barca assume una velocità…superiore all’usuale! Davvero bizzarro, ma tutto sembra in ordine e io non tocco più la manetta. Metterò in folle solo un attimo prima di poggiare Ulyxes alla banchina di Leixões. Facciamo le 15 miglia fino al porto con animo sempre più leggero. Via via ci convinciamo che riusciremo ad entrare in porto con i nostri mezzi e, finalmente, alle 10:30 siamo ormeggiati, al sicuro. Che sollievo. I residui di cima che erano rimasti attorcigliati intorno all’asse li ho tolti immergendomi nelle acque poco invitanti del porto di Leixões, poco invitanti, è vero, ma esenti da predatori pericolosi.
Una piccola spiegazione sull’aumento di velocità osservato. In occasione della partenza di novembre, fra le tante disavventure, avevo anche preso con l’elica una cima galleggiante che trainavo come misura di sicurezza, nel caso fossi cascato in mare. Credevo di essermene liberato completamente e non ci avevo pensato più. Invece, probabilmente, qualche filaccia era restata aderente alle pale, col risultato di alterarne il profilo idrodinamico e causare quindi uno scadimento del rendimento. Con tutta evidenza l’incidente di stanotte ha avuto l’effetto di ripulire l’elica dai vecchi residui e il rendimento è immediatamente migliorato. Quando si dice…

Dal giornale di bordo:

E’ il 25 maggio, siamo in navigazione e abbiamo appena passato Capo Finisterre, un nome una fama. Ma per noi è un passaggio di tutto riposo, andiamo a vela con un vento al traverso F3, Ulyxes non va velocissima, ma che pace, che bell’andare. Questa è la notte degli uccelli. Viene a bordo un piccione, ha la fascetta ad entrambe le zampe, è pure molto simpatico, si fa prendere e accarezzare ma scagazza dappertutto. Prendiamo in esame il proposito assassino di fargli fare un tuffo in pentola ma, stante che siamo entrati un po’ in confidenza, decidiamo di soprassedere. Credo che il  pennuto però non si sia rallegrato dello scampato pericolo poiché nulla aveva percepito. Avrebbe potuto mai pensare che quelle mani amorevoli, che lo carezzavano e gli porgevano delle briciole di pane appartenessero a dei potenziali assassini!  Ad ogni buon conto, dopo poco si è eclissato, togliendoci ogni  tentazione e… il fastidio delle sue deiezioni. E’ stata poi la volta di due passeriformi, uno è sparito subito, mentre l’altro si è distinto in acrobazie da circo, nel tentativo di trovare un punto dove appollaiarsi in comodità. Purtroppo al mattino lo abbiamo trovato morto. Stecchito. Chissà che cosa aveva.

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